Spigolature di storia glocale

Quando ci chiamavamo Lupo, Sichelgaita, Villa

Nel Chronicon vulturnense -

il codice del XII secolo conservato nella Biblioteca apostolica vaticana, fonte imprescindibile per la storia medievale della Valle del Volturno e molisana[1] - è contenuto un documento del luglio 1029, redatto nel castello di Bagnoli (oggi Bagnoli del Trigno), riguardante l’atto di cessione all’abbazia di S. Vincenzo al Volturno di alcune terre nei pressi della cosiddetta “Morgia Pietravalle” o “Morgia dei briganti”, in località, allora come oggi, denominata Campo Frigido, entro gli attuali confini del comune di Salcito.  

 Il documento è già noto. Franco Valente l’ha utilizzato per proporre interessanti ipotesi sulla localizzazione delle antiche chiese rurali di S. Marco e S. Lorenzo, del Castrum S. Laurenti e dei feudi di Pietravalida e Castelluccio[2]. Ne riprendiamo qui l’analisi per alcune considerazioni di storia sociale, basandoci, in particolare, sull’onomastica.

Il testo è aperto dall’invocazione al nome di Dio, subito seguita dall’ossequio ai principi Landolfo e Pandolfo. Si tratta del duca di Benevento Landolfo IV e di suo figlio Pandolfo III co-reggente del ducato, secondo la regola, introdotta da Atenolfo I nell’899, per cui gli eredi dei principati longobardi venivano associati al potere ancora vivente il padre. I due erano i capi del ducato longobardo di Benevento che comprendeva in quel momento i territori oggi corrispondenti a parte dell’Abruzzo meridionale, al Molise, al Sannio beneventano ed alla Puglia settentrionale a nord di Taranto, dopo che, alla morte di Pandolfo Capodiferro (981) il Principato di Benevento, da questi riunificato, era stato nuovamente diviso tra i suoi eredi nei ducati, o principati, di Benevento e Salerno. 

I firmatari del documento del 1029 sono il prete Lupo, del fu Mainone, e il giudice Giovanni, figlio del defunto Lupo, entrambi abitanti in Bagnoli. Testimone insieme ad altre persone, un altro giudice, anch’egli di nome Lupo. Notiamo subito che di cinque persone citate nel testo, tre si chiamavano Lupo.

Il prete Lupo e il giudice Giovanni dichiarano di donare al monastero di S. Vincenzo al Volturno le due chiese di S. Lorenzo e S. Marco con le relative pertinenze e terre, tutte comprese nella località Campo Frigido. Secondo la formula di rito al tempo, i due sottolineavano di fare la donazione per ottenere la redenzione delle loro anime e di quelle dei loro genitori, come delle loro mogli, Sichelgaida e Villa, e dei loro figli. Per inciso, non deve stupire che il prete Lupo avesse moglie e figli. Il celibato dei preti fu istituito nel 1079, cinquant’anni dopo la redazione del documento di cui parliamo, nell’ambito della Riforma Gregoriana, cosiddetta dal nome di papa Gregorio VII che la volle. Prima di quella data i sacerdoti, e dunque anche il nostro prete Lupo di Bagnoli, si sposavano.

Tornando alla preoccupazione di Giovanni e Lupo di salvare le proprie anime e quelle dei loro familiari, va tenuto presente che, in realtà, nel sistema religioso, culturale, economico, politico e giurisdizionale del tempo, essenzialmente strutturato sul sistema monastico feudale di organizzazione del territorio, istanze religiose di salvezza eterna, esigenze di mostrare e aumentare il proprio prestigio sociale e più immediati interessi economici si intrecciavano strettamente negli atteggiamenti dei più ricchi esponenti di ogni comunità locale. Dal punto di vista strettamente economico, la donazione di terre ad un cenobio, non era una vera e propria cessione di terreni e altri beni immobili, essendo spesso effettuata con riserva di usufrutto perpetuo da parte del donatore. Essa, accompagnata alla commendatio, l’atto di formale sottomissione ad un’autorità riconosciuta, era finalizzata ad ottenere il riconoscimento ufficiale del dominio utile su un determinato bene e ad assicurare la certezza giuridica del suo possesso, fondandola sulla protezione politica che i grandi monasteri benedettini del tempo potevano assicurare. Un potere che a quei monasteri derivava dalla loro importanza economica come grandi “aziende” agrarie, dal loro prestigio religioso e culturale, e soprattutto dall’essere detentori dell’immunitas, cioè del privilegio imperiale dell’autonomia di imposizione fiscale e dell’esercizio della giurisdizione sui territori dichiarati loro possedimenti. Tutti elementi che ne facevano, in sostanza, delle vere e proprie signorie locali, centri politici e direzionali di territori amplissimi.

Nell’area compresa tra i fiumi Pescara e Garigliano, sorta di cuscinetto tra l’area franca e quella longobarda della penisola, i luoghi strategici dell’assetto territoriale fondato sul sistema monastico benedettino erano i monasteri di S. Liberatore a Maiella, S. Clemente di Casauria nel Chietino, S. Benedetto a Montecassino e S. Vincenzo al Volturno. Le dipendenze di quest’ultimo erano distribuite, oltre che nelle attuali regioni Abruzzo, Lazio, Puglia comprese le isole Tremiti, a macchia di leopardo in tutto il territorio oggi molisano. In area trignino - bifernina ricordiamo, inoltre, i più piccoli ma comunque importanti cenobi di S. Maria in Anglonia in Agnone, S. Maria di Canneto lungo il Trigno presso Roccavivara, S. Stefano alla foce dello stesso fiume, S. Maria del Castagneto tra Casalciprano e Castropignano, S. Maria di Casalpiano e S. Maria di Matrice lungo il Biferno.

Le donazioni di terre effettuate da sovrani o, come nel nostro caso, da privati di alto rango a enti monastici furono - soprattutto tra X e XI secolo - determinanti nella costruzione dell’assetto insediativo “molisano” medievale con la fondazione di un gran numero di curtes e casalia, a volte sui resti di precedenti insediamenti romani spopolati e in rovina già a partire dal IV secolo dopo Cristo.

Anche la donazione di cui trattiamo comportò certamente la costituzione sui terreni di Campo Frigido, posti formalmente sotto la giurisdizione dell’abate Ilario di S. Vincenzo al Volturno, di una piccola comunità contadina raccolta intorno alla chiesa rurale di S. Lorenzo e. di lì a qualche decennio, al villaggio fortificato denominato Castrum S. Laurentiis.

Lo stesso avveniva - per citare soltanto i centri fino ad oggi individuati più vicini a Bagnoli - per S. Benedetto de Iumento Albo (oggi in agro di Civitanova del Sannio e anch’esso donato nel 1002 dal conte di Bagnoli Berardo Borrello e da sua moglie Gemma, per il tramite dell’abate Pietro,  al monastero di Montecassino); per quello di S. Bartolomeo nei pressi dell’omonima torre verso Salcito nella contrada, un tempo feudo, di Moriconi;  di S. Cataldo nel territorio di Poggio Sannita; S. Eustachio ad Arcum (nel luogo oggi chiamato frazione Arco nei pressi dell’omonimo vallone, nel territorio comunale di Pietrabbondante), di S. Colomba di Frosolone. Intorno a tutti questi piccoli monasteri, chiese e pievi si strutturavano, come a S. Lorenzo in Campo Frigido, piccoli villaggi rurali come quelli, nel territorio bagnolese, di Castelluccio, S. Biase, S. Polo, S. Martino, S. Pietro, S. Donato e S. Maria, molti dei quali scomparsi ma diversi  abitati ancora oggi. 

L’insediamento intorno ad un piccolo monastero o anche ad una semplice chiesa rurale di comunità contadine al fine dissodare e lavorare nuove terre risultava interessante per i signori locali. La nuova presenza contadina avrebbe garantito la manodopera necessaria non solo alla coltivazione degli fondi ad essi concessi, ma anche di quelli gestiti direttamente dai signori nella stessa zona e, più, in generale,  avrebbe rafforzato il loro prestigio e potere di classe dirigente  locale.

Il contratto agrario a cui i contadini erano sottoposti era quello cosiddetto a livello, consistente nella concessione ad una famiglia di coltivatori di un terreno, di solito incolto, per il suo dissodamento, miglioramento agrario e coltivazione, per un periodo di ventinove anni rinnovabile, a fronte del pagamento di un canone annuale, anche detto censo. Unicamente dal lavoro contadino derivava quindi, oltre il miglioramento agrario dei fondi, il censo da pagare ai possessori utilisti dei terreni avuti a livello – ad esempio, al prete Lupo e al giudice Giovanni - come la quota (la decima) da trasferire all’abate di S. Vincenzo al Volturno. 

Venendo ora all’onomastica, notiamo che, nella descrizione minuziosa dei nove terreni oggetto della donazione, con l’individuazione dei relativi confini suggestivamente segnati da massi, pietre di confine, ruscelli e sorgenti, vengono anche elencati i proprietari dei terreni confinanti con quelli donati. Abbiamo così l’elenco dei seguenti nomi: Pietro, Cordevisio, Vitale, Adelberto, Orso, Liutardo, Fulco; tra i giudici presenti oltre al già citato giudice Lupo, anche Guinisio e Pietro.

Notiamo che si tratta di nomi di origine sia latina e cristiana (Lupo, Orso, Pietro, Vitale) che, in maggior numero, longobarda (Cordevisio, Fulco, Guinisio Landolfo, Pandolfo, Sichelgaida, Villa) e anche franca (Adelberto, Liutardo). Non dobbiamo per questo semplicisticamente immaginare la compresenza di persone dalla diversa origine etnica nella Bagnoli del 1029. La dominazione longobarda nel ducato di Benevento era iniziata già alla fine del sesto secolo, oltre quattrocento anni prima dei fatti che raccontiamo; come la presenza di Franchi al suo confine settentrionale datava dal 774, quando la conquista carolingia del Nord Italia aveva incluso il Regno longobardo ed anche il Ducato di Spoleto nel Sacro romano impero, portandone l’incerto confine meridionale proprio in ambito “abruzzese-molisano”, lungo il fiume Trigno. In quei lunghi quattro secoli era progressivamente avvenuta la fusione tra popolazione locale di origine latina e quella “immigrata” di origine longobarda ed anche franca.

Come per molti altri aspetti, anche dal punto di vista onomastico nell’Italia longobarda si crea dapprima una forte discontinuità con il passato, per poi arrivare ad una maggiore integrazione. I nomi longobardi si diffondono capillarmente in tutta la società, si formano moltissimi ibridi e forme miste e, nell’epoca tarda, cominciano già ad apparire forme ormai neolatine, con suffissi che possiamo chiamare ormai italiani.

Nel tempo le diverse tradizioni onomastiche si erano dunque fuse e nomi latini, franchi o longobardi erano indifferentemente usati nelle medesime famiglie, soprattutto quelle più altolocate. Anche nella morfologia dei nomi si arriva alla mistura di forme latine e longobarde, come ad esempio Ursus (Orso) flesso, secondo un modello germanico, in Ursoni. Sempre nomi romani come Ursus e Lupus (Lupo) vengono rafforzati dagli analoghi germanici Bert e Wulf, trasformandosi, ad esempio, in Berevulfus e Wadvulfus. Si ricordi poi come nomi di tradizione cristiana, come Michele e Giovanni indicassero i principali protettori della gente longobarda; così come, al contrario, i tre monaci fondatori di S. Vincenzo al Volturno, Paldo, Taso e Tato, portassero nomi di origine longobarda (Si ricordi che i Longobardi si convertirono al cristianesimo alla fine del settimo secolo).

Pochi anni dopo la stesura del nostro documento, nel 1053, i Normanni, con Roberto il Guiscardo, conquisteranno il Ducato di Benevento e si installeranno anche a Bagnoli e in tutto l’attuale Molise. Le tradizioni giuridiche ed anche onomastiche beneventane rimasero ancora vive anche dopo la conquista normanna, prima di perdersi però definitivamente. I nomi longobardi sono oggi poco usati come nomi di battesimo, anche se Aldo, Anselmo, Ermelinda si registrano ancora, anche in Bagnoli. Così come resistono, nella tradizione locale, nomi longobardo-romani tra gli appellativi di ceppo famigliare, come, ad esempio, Orsi, oppure in toponimi come quello della contrada rurale Ursoni. Ma, nel complesso, furono in effetti gradualmente sostituiti dai nomi di tipo franco-carolingio, e poi dai nuovi nomi italiani medievali.

Per concludere: anche i nomi riflettono quello che si evince da altri dati storici; dopo l’iniziale separatezza, i Longobardi attraversarono un intenso periodo di adattamento, di assorbimento nella realtà locale e di acculturazione; attorno a loro e alle loro leggi si riorganizzava anche la società “romana”, che comincia a uniformarsi e assorbire elementi della cultura germanica come le tradizioni onomastiche. Fusione dunque e non giustapposizione. Per questo le mogli di Lupo e Giovanni si chiamavano Sichelgaita e Villa. Non perché i mariti fossero “romani” e le mogli “longobarde”, ma perché nei quattro secoli del cosiddetto “Periodo longobardo” le popolazioni locali si erano ormai indifferentemente fuse, mescolando usi, costumi, tradizioni, con quelle arrivate a partire dalla fine del sesto secolo dal Friuli, dopo essere partite, ancora prima, dalla Pannonia ( la regione compresa tra i fiumi Danubio e Sava, corrispondente alla parte occidentale dell'attuale Ungheria, al Burgenland, oggi Land austriaco, fino a Vienna, alla parte settentrionale della Croazia ed orientale della Slovenia).

Quel processo di reciproca assimilazione non fu, del resto, semplice mescolanza tra due etnie, una romana e l’altra germanica, entrambe in realtà non chiaramente identificabili. I cosiddetti “Longobardi” che arrivarono in Italia erano in realtà popolazioni alquanto multietniche: Gepidi, Sarmati, Sassoni, Bulgari, Romani provinciali, e altri, non tutti, dunque, germanici. Non esisteva del resto nell’Europa centrale e settentrionale del tempo una nazione e tanto meno una realtà statuale longobarde.

Anche l’antroponimia che si afferma nel ducato di Benevento, come abbiamo visto, non riflette antiche origini etniche ma un complesso processo di longobardizzazione che coinvolgeva sia le popolazioni sopraggiunte che quelle già presenti. L’identità longobarda diveniva così un’identità aperta all’inclusione, ma soprattutto nuova, non circoscritta, ma espressa da istituzioni, pratiche e simboli comuni ai diversi popoli, in un processo complesso di nuova costruzione identitaria proprio di tutte le culture in trasformazione. Insomma, Longobardi non si era a priori, per radici etniche; Longobardi si diventava.

Con buona pace di quelli che, ancora, per ignoranza o malafede, violentano la storia per piegarla a dimostrare a tutti i costi improbabili “purezze etniche”, celtiche o latine che si voglia.


[1] Del documento esistono diverse edizioni. Citiamo da Chronicon Volturnense del monaco Giovanni, a cura di Massimo Oldoni, Volturnia Edizioni, Cerro al Volturno 2010.

[2] http://www.francovalente.it/2007/09/15/il-castrum-sancti-laurentii-di-salcito/


 

Per saperne di più: 

Antonino De Francesco, Origini e sviluppo del feudalesimo in Molise, in «Archivio storico delle province napoletane», XXXIV, 1909, pp. 432-60; XXX, 1910, pp. 70-98 e 237-307. 

Nicoletta Francovich Onesti, Discontinuità e integrazione nel sistema onomastico dell’Italia tardoantica: l’incontro coi nomi germanici, in La trasformazione del mondo romano e le grandi migrazioni. Nuovi popoli dall’Europa settentrionale e centro-orientale alle coste del Mediterraneo. Atti del Convegno internazionale di studi, Cimitile-Santa Maria Capua Vetere, 16-17 giugno 2011, a cura di Carlo Ebanista e Marcello Rotili, Cimitile (Napoli), Tavolario edizioni, 2012, pp. 33-50 © dell’autrice - Distribuito in formato digitale da “Reti Medievali”, www.retimedievali.it]. 

Nicoletta Francovich-Onesti, L’antroponimia longobarda della Toscana: caratteri e diffusione, in «Rivista Italiana di Onomastica», pp. 357-374. 

Mario Del Treppo, Terra Sacti Vincentii. L’abbazia di San Vincenzo al Volturno nell’Alto Medioevo, Libreria scientifica, Napoli 1968.

Walter Pohl, La discussa identità etnica dei Longobardi, http://www.tavoladismeraldo.it/TAVOLA%20DI% 20SMERALDO/biblioteca/LONGOBARDI%20E%20LE%20ALPI/2%20-%20LA%20DISCUSSA%20IDENTITA' %20ETNICA.pdf

 

Historicus balneolense

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